S&P500 a 2.500 punti: Prossimo target a quota 3.000

L’abbattimento della barriera storica dei 2.000 punti a metà del 2016 non lasciava certo presupporre che l’indice arrivasse in modo logaritmico anche ai 2.500 punti in meno di quindici mesi, dal precedente target raggiunto.

Il rally del più noto indice borsistico mondiale ha superato venerdì il 266% dal marzo 2009, diventando, come indicato nel grafico sottostante, il terzo più importante della storia di questo listino.

In aggiunta, a rafforzamento dell’incredibile rialzo, lo S&P500 non sperimenta una correzione superiore al tre per cento da oltre 216 giorni, la seconda striscia più lunga della storia, avendo realizzato nello stesso periodo un guadagno del 20 per cento.

Due sono le principali componenti che hanno permesso una performance così straordinaria e che molti sperano possa essere ripetuta, lanciando il listino verso la vetta dei 3.000 punti: la liquidità immessa dalle banche centrali nel sistema finanziario e la politica dei buyback (riacquisto di azioni) da parte delle società quotate.

Secondo il giornale online indipendente Banyan Hill, i principali parametri utilizzati nella valutazione dei titoli indicano tutti che la percentuale delle società ancora a sconto, nei listini americani, è molto contenuta e varia dal sei al diciassette per cento del totale in base allo strumento di analisi utilizzato.

Malgrado tali premesse, non stupirebbe che il mercato proseguisse la sua corsa o che, diversamente, iniziasse quello storno tanto invocato da molti investitori per assecondare più facilmente il rialzo in futuro o più semplicemente per consentire a chi è rimasto fuori dal mercato di partecipare a questa festa. I catalizzatori positivi potrebbero arrivare da Washington e dalle riforme promesse dal presidente Trump, ancora impantanate nella loro elaborazione e nelle liti all’interno del partito repubblicano che ostacolano l’approvazione di alcune leggi molto attese quali la riforma fiscale.

Fed e credito: gli aghi della bilancia

La banche centrali hanno comunque iniettato 1,8 trilioni di dollari rimanendo, in modo indiretto, il principale sostegno di questo lunghissimo rialzo e continuando a dare fiducia agli investitori.

Una loro frenata, già paventata, della politica espansiva ancora in atto attraverso la riduzione dell’attivo di bilancio con la conseguente vendita progressiva dei titoli in portafoglio potrebbe avere un impatto negativo sul mercato azionario, protetto da anni dal paracadute monetario. Tale decisione potrebbe essere attuata già mercoledì nella prossima riunione del Fomc.

La liquidità messa a disposizione da tutte le autorità monetarie ha consentito la riduzione dei tassi di interesse ai minimi storici e l’accesso al credito a società che, in contesti ordinari, non avrebbero disposto di facilitazioni bancarie così sostenute.

Quest’ultime sono state utilizzate, in molti casi, più per esigenze finanziarie che per investimenti produttivi, alimentando il rialzo già in corso dei mercati azionari e stornando fondi da inserire nell’economia reale.

Al contrario, qualora la Fed faccia completa marcia indietro sul ritmo di rialzo dei tassi di interesse o eviti di ridurre il proprio attivo di bilancio, si troverà in futuro con le armi spuntate nel caso l’economia entri in recessione.

Se, invece, aumentasse la velocità di restrizione monetaria la manovra potrebbe avere un effetto distruttivo minando l’elevata compiacenza e lo “status quo” dei mercati azionari.

Il dilemma diventa infine complicato in un momento di riduzione dei finanziamenti da parte del sistema bancario statunitense, un fenomeno che in passato ha anticipato sette delle ultime otto recessioni.

Tuttavia, tanto più il mercato continuerà a salire in assenza di incrementi sostanziali degli utili societari quanto più la Fed si troverà al bivio sulla necessità di far inflazionare oltremodo la bolla azionaria o di farla, invece, scoppiare con tutti i rischi del caso.