Che il destino di Carige, nei tempi e nei modi più opportuni e convenienti per gli azionisti, sia quello di rientrare nel processo di aggregazioni che vedrà come protagonista il settore bancario italiano, pare una strada difficilmente eludibile.
Lo ha più volte dichiarato lo stesso amministratore delegato della banca, Paolo Fiorentino, che in diverse occasioni ha rammentato come il processo di risanamento finanziario dell’istituto sia finalizzato a trovare il migliore partner sul mercato.
E recentemente l’ha ribadito anche Raffaele Mincione, il finanziere londinese entrato a inizio anno nel capitale dell’istituto genovese con una quota del 5,4 per cento.
Mincione ha affermato in un’intervista che Carige potrebbe valere due o tre volte le attuali quotazioni di borsa in caso accettasse di essere venduta.
Il finanziere ha poi chiamato direttamente in causa il principale socio di Carige, Vittorio Malacalza, attribuendogli una certa resistenza a voler cedere le azioni. “Malacalza deve avere l’umiltà di capire che bisogna fare parte di un gruppo più grande” ha detto Mincione.
Ma su questo punto, cioè sul non volere vendere, la posizione dell’imprenditore piacentino potrebbe non essere solo legata alla volontà di mantenere il proprio ruolo preminente nell’istituto genovese, dove peraltro la Bce ha imposto che la sua holding non eserciti alcuna influenza nella gestione operativa configurabile come attività di direzione e coordinamento.
Il problema di Malacalza potrebbe essere legato al valore di carico della partecipazione, che è molto alto e, anche se la banca triplicasse il proprio prezzo, rischierebbe di vendere in perdita.
Prima dell’aumento di capitale da 500 milioni dello scorso mese di dicembre, Malacalza deteneva un pacchetto del 17,59% di Carige iscritto a bilancio della sua holding a un valore di carico di 263,5 milioni.
L’imprenditore ha aderito all’aumento di capitale, portando la propria quota al 20,6% con un investimento di circa 100 milioni. L’attuale valore di carico della sua partecipazione potrebbe aggirarsi quindi attorno ai 365 milioni. Il tutto per un pacchetto che in Borsa vale circa 96 milioni.
Se Carige ricevesse un’offerta pari al triplo dell’attuale valore di Borsa, il pacchetto del 20,6% verrebbe valorizzato 286 milioni. Meno del valore di carico di Malacalza.
Ma allora ci sono maggiori possibilità di vedere apprezzato il valore di Carige mantenendo le azioni in portafoglio? Se si considera l’orizzonte temporale dato dal business plan in corso, si potrebbe arrivare a un valore in linea con quello indicato da Mincione.
Il piano denominato “Transformation Program 2017-2020” prevede, se tutti gli obiettivi saranno centrati, di arrivare a un utile netto di 146 milioni per il 2020. Applicando un multiplo pari a 8-9 volte l’utile, secondo la media calcolata da Bloomberg per le banche italiane sugli utili al 2020, si arriva a una valutazione del totale della banca compresa tra 1,17 e 1,31 miliardi.
Un valore in linea al triplo dell’attuale capitalizzazione, cioè 1,39 miliardi. Cifre comunque inferiori al valore di carico di Malacalza, che corrisponde a una valutazione del 100% di Carige di 1,77 miliardi. Tutto questo senza considerare la variabile tempo, che in finanza, invece, riveste una notevole importanza.
Per Mincione il discorso è ben diverso poiché egli ha comprato in Borsa tra gennaio e febbraio, per cui il suo valore di carico dovrebbe essere in linea con l’attuale quotazione dell’istituto.
Ovviamente si tratta di supposizioni e di valori teorici, poiché al momento Carige non ha trattative di cessione in corso e le valutazioni sulla base dei target del piano presuppongono che l’istituto riesca a raggiungere i propri obiettivi nei tempi previsti.