Usa vs Cina – L’esito del G20, i dazi e l’impatto sui mercati

Le Borse mondiali hanno risposto con un convinto rimbalzo alla dichiarazione finale congiunta tra i due Paesi a seguito del G20.

In realtà, alcuni analisti giudicano l’entusiasmo eccessivo o comunque non determinante sul futuro andamento dei mercati azionari e in particolare di Wall Street.

Gli Stati Uniti hanno promesso di congelare per tre mesi l’incremento dei dazi dal 10% al 25% sui prodotti già in essere dal primo gennaio 2019 e di rimandare l’imposizione di nuove tariffe su altri beni e servizi per almeno 90 giorni.

Come contropartita, i cinesi si dovrebbero impegnare ad acquistare più prodotti nel comparto dell’agricoltura e dell’energia (gas liquefatto) e disponibili ad aprire il mercato dei capitali e della protezione intellettuale.

La situazione attuale

Quando parliamo di guerra tariffaria facciamo erroneamente riferimento a un problema nuovo.

In realtà gli Stati Uniti sono da anni in una guerra commerciale contro la Cina, denunciandone le politiche di dumping ormai da diversi anni.

In questo contesto il WTO non ha fatto nulla per difendere o tutelare gli interessi americani, i quali hanno deciso con il nuovo inquilino alla Casa Bianca, Donald Trump, di passare dalle minacce di ritorsioni ai fatti.

La Cina necessita disperatamente di mantenere un surplus commerciale con gli Stati Uniti per finanziare il suo modello di crescente indebitamento. Allo stesso tempo gli Usa hanno bisogno che la Cina compri il loro debito pubblico.

La Cina, inoltre, ha il problema della continua discesa delle riserve valutarie, calate ad ottobre al livello più basso degli ultimi 18 mesi. La riduzione di 33,9 miliardi di dollari è la più cospicua dal dicembre 2016.

La prima economia asiatica, per mantenere il suo livello attuale di crescita, alimentata da una grossa bolla creditizia, deve comunque continuare ad esportare negli stati Uniti, primo mercato di sbocco delle proprie merci e che non può essere sostituito per dimensione con nessun’altra controparte.

L’attuale surplus cinese verso gli Stati Uniti ammonta a 275 miliardi di dollari l’anno.

Una caduta delle esportazioni asiatiche significherebbe una riduzione ancora maggiore delle riserve valutarie, che sono già calate del 30% dai massimi del 2014 con conseguenze negative sulla crescita, l’incremento dei debiti e una possibile nuova svalutazione dello yuan.

Questi tre effetti si sono già verificati anche nel 2018, sebbene fortunatamente non proprio congiuntamente.

Le ripercussioni

In buona sostanza, la guerra commerciale avrà ripercussioni molto pesanti sull’economia cinese, mentre per gli Stati Uniti l’incidenza prevede un impatto negativo molto più contenuto.

L’economia a stelle e strisce esporta solo l’11% del suo Pil e di cui solo una quota modestissima è destinata alla Cina e, pertanto, un accordo è assolutamente necessario nell’interesse del’economia mondiale.

Una guerra commerciale può generare costi di approvvigionamento delle materie prime per i prodotti americani, ma la realtà è che la Cina esporta deflazione con le sue politiche di dumping.

Questa non è una ragione per sostenere la necessità di una guerra commerciale ma spiega, almeno in parte, la frustrazione americana e l’impatto negativo che questa vicenda avrà su entrambi i campi di battaglia.

Di conseguenza, l’accordo del G20 sembra solo un momentaneo “cessate il fuoco”.

Anche i due comunicati finali sono divergenti. Ciò che è richiesto da una parte (gli USA) non è confermato dall’altra (CINA). La potenza asiatica non ha intenzione di garantire la proprietà intellettuale e di eliminare il controllo interno sui capitali, che confluiscono in gran parte negli investimenti immobiliari sia americani che canadesi.

Le misure annunciate avranno infatti un impatto irrisorio sui deficit/surplus reciproci. Il surplus cinese verso gli Usa è schizzato dai 21,9 miliardi di dollari di gennaio ai $34,1 di settembre.

Se la Cina raddoppiasse gli acquisti agricoli e di prodotti energetici, cosa molto difficile da ottenere, il surplus scenderebbe di soli $3 miliardi.

Questo accordo è solo una tregua e i previsti rialzi dei dazi potrebbero ripartire dopo i 90 giorni di pausa, una “deadline” che appare peraltro solo nel comunicato finale americano e non in quello cinese.

In realtà, alcuni economisti hanno evidenziato che il contenuto della tregua non è molto diverso da quello di maggio, la quale fallì miseramente già prima dell’estate.

Qualora la Cina continuasse a svalutare lo yuan, sarebbe un primo forte segnale di inefficacia dell’accordo.

Tuttavia, la guerra commerciale è la punta dell’iceberg di uno scenario che sta mutando.

Wall Street ha manifestato un evidente aumento della volatilità da inizio ottobre con indici sulle montagne russe, malgrado lo scenario di fondo rimanga positivo ma ci siano segnali di un rallentamento che il mercato azionario sembra avere già anticipato.

In sintesi, l’accordo commerciale tra le due prime superpotenze potrà essere un catalizzatore per i mercati azionari, come accaduto nella seduta successiva alla sua ratifica (lunedì), ma non avrà impatto sui timori per il rallentamento macroeconomico mondiale ipotizzato che pesano, invece, sui listini come nella seduta di martedì, che ha già azzerato il progresso iniziale.