Carige – La fragilità di una banca che ha puntato tutto sull’”indipendenza”

Il commissariamento da parte della Bce e il decreto per il salvataggio, approvato dal Governo ieri sera, rappresentano il capolinea di una vicenda bancaria la cui crisi affonda le radici nella gestione del passato, ma che riflette anche l’inconsistenza di una politica che oggi ha dovuto abbandonare un altro dei suoi capisaldi “Mai un euro alle banche” proprio nella città di Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 Stelle che oggi sta abbandonando ad uno ad uno i suoi principi fondatori.

La vicenda Carige può essere interpretata come una cartina di tornasole per diversi rilevanti aspetti che riguardano il ruolo delle banche nel sistema economico, la loro gestione e la conduzione delle eventuali crisi e il ruolo della politica, anche quella del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che oggi ha dovuto dire addio all’ennesimo capisaldo della propria esistenza: “Mai un euro alle banche”.

Da una parte infatti la storia di Carige spicca per la vicenda economica di una banca che è riuscita, pur operando in un territorio ricco, anche se pesantemente colpito dalla crisi nei suoi principali settori di sviluppo, quello navale e quello immobiliare, a distruggere valore negli ultimi anni in modo drammatico. Dalla capitalizzazione massima raggiunta nel 2006 superiore ai 6 miliardi, i titoli sono scivolati in Borsa fino a valere circa 80 milioni prima della recente sospensione dagli scambi.

Il tutto dopo avere “bruciato” i soldi incassati attraverso le numerose operazioni di ricapitalizzazione avvenute negli ultimi anni. La più recente è l’aumento di capitale da 540 milioni del dicembre 2017, nell’ambito di un’operazione di rafforzamento patrimoniale da circa un miliardo, incluse le dismissioni e la conversione dei subordinati. Ma la banca aveva avuto necessità di una nuova iniezione di capitale ogni due anni circa a partire dall’aumento da 800 milioni del 2013 a quello da 850 milioni del 2015.

In questo contesto appare inadeguato il compito del principale azionista, la finanziaria Malacalza che, dopo avere investito nell’istituto genovese 420 milioni, il cui valore ai più recenti prezzi di Borsa si è ridotto a 22 milioni, ha sempre soppesato nelle proprie decisioni il proprio interesse su un piatto della bilancia rispetto a quello della banca sull’altro piatto.

Per questo la famiglia non ha approvato l’aumento di capitale da 400 milioni proposto dal vertice, su spinta della Bce, per mettere in sicurezza l’istituto. Per i Malacalza la prospettiva di vedere andare in fumo altri 120 milioni, corrispondenti alla propria quota di competenza nell’aumento di capitale da 400 milioni, non era sostenibile, ma al contempo era altrettanto impensabile dare il proprio via libera all’operazione senza parteciparvi. Questo avrebbe significato consegnare ad altri il controllo della banca e quindi dover registrare la perdita dell’investimento finora sostenuto.

I Malacalza, pur essendosi formalmente impegnati con la Bce a non esercitare un ruolo gestionale nella banca, hanno con le loro decisioni segnato l’andamento dell’istituto negli ultimi anni. A partire dalla scelta degli ultimi amministratori delegati come Guido Bastianini e Paolo Fiorentino, poi rapidamente sfiduciati. Una discontinuità e mancanza di fiducia che hanno marcato l’andamento dell’istituto, la cui solidità era già stata compromessa dalla gestione precedente, che con il proprio stile dal credito facile aveva portato l’istituto ad avere un fardello insostenibile di crediti deteriorati.

A fine 2016 gli Npe erano arrivati a sfiorare i 7 miliardi, pari al 27% del totale dei crediti. Praticamente un terzo dei soldi prestati ai clienti si era rivelato impossibile o difficile da riscuotere.

Una situazione che si era accumulata negli anni ai tempi del controllo da parte della Fondazione Carige, che non si era rivelato un azionista molto lungimirante. L’ente aveva consegnato per 20 anni il potere al presidente Giovanni Berneschi che, dopo anni di gestione contestabile, è stato travolto dalle inchieste giudiziarie.

Ma al di là della funzione degli azionisti, il secondo rilevante ruolo da indagare nel caso di Carige è quello della politica. Quella del passato che ha cercato di incidere sulle azioni della banca per interessi locali. E quella del Governo giallo-verde di oggi che, dopo dichiarazioni di principio, dicendo che non sarebbe “Mai stato dato un euro alle banche”, di fronte alla crisi conclamata di Carige ha approvato un decreto in cui mette a disposizione la garanzia statale al funding di medio periodo nonché prevede anche un intervento di ricapitalizzazione precauzionale.

Il fallimento di Carige, che non è allo stato attuale contemplato nonostante gli auspici riportati dalla stampa tedesca, sarebbe infatti devastante per l’economia della Liguria. Senza pensare al costo per il sistema bancario che sarebbe chiamato a garantire i conti correnti fino a 100 mila euro con un costo stimato in 7 miliardi di euro. E senza considerare le perdite degli investitori in borsa e i dipendenti che rimarrebbero senza impiego.