Wall Street e i dubbi sull’economia americana

Partiamo dalla certezza che lo stato di salute dell’economia a stelle e strisce abbia poco a che vedere con Donald Trump, almeno per il momento.

Tuttavia, il mercato ha innestato la sesta marcia proprio in seguito alla sua elezione e questo elemento va in qualche misura rimarcato.

Ancora in questa settimana lo S&P500 ha raggiunto la soglia dei 2.400 punti, tre volte e mezzo il minimo siglato nel marzo del 2009 a 683.

Tutto il rialzo da inizio anno dell’indice borsistico più importante al mondo è stato realizzato da cinque titoli, vale a dire i soliti noti: Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google, mentre le 495 rimanenti società inserite nel listino hanno perso in capitalizzazione quanto guadagnato dai “top five” indicati.

Tra queste cinque c’è anche il caso di Amazon che recentemente ha superato i 450 miliardi di dollari di capitalizzazione a vent’anni dalla sua quotazione. La società però continua a perdere soldi e solo recentemente ha iniziato a guadagnarne ma ancora molto pochi, pur essendo leader di mercato nel suo settore.

Qualcuno definisce Amazon la più grande macchina mangia soldi mai inventata in grado di attrarre quasi 500 miliardi di dollari senza quasi realizzare profitti, con un cash flow molto basso e non avendo mai pagato un dividendo.

Ma questo è il mercato americano delle “start up” e della tecnologia che ha reso diversi fondatori di queste società ricchi lasciando spesso un pugno di mosche in mano agli azionisti. Per ogni cavallo vincente nel Nasdaq o nello S&P500 ci sono, infatti, centinaia di perdenti.

In aggiunta, negli ultimi anni, sembra che l’andamento dell’economia sia stato del tutto ininfluente sulla performance di Wall Street.

I “millennials” considerano ormai il “nuovo normale” convivere con una quantità eccessiva di debito e condurre una qualità di vita decisamente più modesta rispetto alla precedente generazione. Essi convivono con l’instabilità del posto di lavoro che si destreggia tra outsourcing, offshoring e progressiva automazione.

La “normalità” a stelle e strisce è rappresentata da una crescita economica poco superiore al due per cento di media nell’ultimo decennio, la metà di quanto visto nel secolo scorso, malgrado uno stimolo monetario senza precedenti messo in campo dalla Fed. Oggi la leva finanziaria (debito) non è più sufficiente a far decollare l’economia, ma appesantisce come una zavorra privati, aziende e Stati nazionali.

Anche la Federal Reserve e le altre banche centrali non sono riuscite nel loro intento di rilanciare la crescita economica, ma solo in parte in quello di stabilizzare lo squilibrio finanziario creatosi dopo il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers.

In aggiunta i tassi d’interesse, tenuti artificialmente bassi, dalle banche centrali mondiali hanno generato bolle in molte asset class e la protezione infinita ai mercati che potrebbero non scendere mai più, secondo i più ottimisti.

Tuttavia, le banche centrali producono nuova moneta ma non possono creare beni e servizi. Non si tratta, di conseguenza, di un problema di quantità di denaro che ha inondato l’economia ma della qualità con il quale la moneta gira nelle varie attività economiche producendone di nuova.

Molti banchieri centrali hanno ormai già riconosciuto che c’è un limite agli obiettivi della crescita, peraltro ormai già raggiunti da anni grazie a una politica economica ultra espansiva. L’espansione economica delle decadi precedenti rimane solo un vago ricordo.

Inoltre, la manipolazione dei tassi di interesse rende meno attendibile il costo dei beni e dei servizi. Utilizzando, infatti, la leva creditizia in eccesso, il consumatore perde il contatto con la realtà ed eccede nel carrello della spesa con l’illusione che indebitarsi costi poco.

Tutto sembra economico, sulla carta, e di conseguenza anche il mercato azionario è sostenuto artificialmente dalle società che utilizzano i tassi di interesse ridicoli per indebitarsi e pagare dividendi o ricomprarsi le proprie azioni (buyback).

In definitiva, il denaro facile spinge gli utilizzatori verso investimenti più rischiosi o spese inutili con un effetto distorsivo sia sui mercati finanziari che sull’economia reale.

Chiudiamo con qualche nota di ottimismo, che attenua il rischio di una prossima recessione americana o perlomeno ne riduce le conseguenze.

Gli Stati Uniti hanno una popolazione di 326 milioni di abitanti che continua a crescere, sebbene in misura più contenuta, e molto motivata a migliorare quotidianamente il loro standard di vita, mentre sulla carta il Paese ha ormai raggiunto l’indipendenza energetica anche nel settore petrolifero.

Inizialmente abbiamo affermato che Trump non può essere ancora ritenuto responsabile per l’attuale incertezza economica. Tuttavia, le enormi aspettative economiche che hanno seguito la sua elezione stanno velocemente evaporando, lasciando il mercato sospeso in un limbo e già orfano della rete di protezione della Federal Reserve.

Questa incertezza potrebbe portare ad un rialzo della volatilità, ora di nuovo schiacciata, sin dai prossimi giorni.