Bce – Mr Draghi docet

Venerdì scorso, a Francoforte, in occasione della conferenza “Europa una nuova era. Come agganciare le opportunità” il presidente delle Bce, Mario Draghi, ha precisato alcuni importanti concetti che spiegano le ragioni delle più recenti decisioni di politica monetaria.

Assodato che la ripresa europea è ormai solida e diffusa, testimoniata dalla crescita del Gdp che si prolunga da diciotto trimestri (quattro anni e mezzo) con prospettive di proseguimento del trend anche per il futuro, e che le minacce a tale scenario potrebbero venire solo da fattori esterni, il solo obiettivo “mancato” resta il tasso d’inflazione, al momento inferiore a quanto la situazione economica dovrebbe comportare.

Il problema non affligge solo il Direttorio della autorità monetaria del Vecchio Continente, sia ben chiaro. Gli Stati Uniti, ben più avanti nel ciclo di espansione rispetto all’Europa, sostanzialmente in piena occupazione e con una politica monetaria ancora accomodante seppure con tassi positivi lungo l’intera curva, devono far fronte allo stesso fenomeno come ribadito anche in una recente intervista dal prof. Edmund Phelps, premio Nobel dell’economia nel 2006, considerato il capostipite degli economisti neo-keynesiani.

Tornando alla Bce, se la politica monetaria potrebbe considerarsi aver esaurito il suo ruolo sotto il profilo dell’obiettivo di crescita economica, lo stesso non può quindi dirsi per l’ottenimento di un sentiero di una crescita solida e salutare dell’inflazione. Quest’ultimo è legato a due fattori principali: la stabilità della crescita economica (che può dirsi acquisito) e la stabilità dell’incremento dei prezzi una volta venuto meno l’effetto dei rincari più volatili, in primis dei prodotti energetici e alimentari. Qui i dubbi e le spiegazioni possono essere differenti, tra questi: la mancata crescita omogenea dei salari che potrebbe a sua volta dipendere essa stessa dalla staticità dei prezzi dei beni, la globalizzazione e la digitalizzazione.

Alla luce di quanto sopra, la Bce ha assunto la decisione di ridurre il ritmo di acquisti di asset sul mercato, dimezzandoli da 60 a 30 miliardi al mese, ma al tempo stesso estendendone la durata a settembre 2018 e oltre, fino a quando non si confermerà un sentiero di crescita dell’inflazione desiderato e stabile.

La ricalibrazione degli acquisti, supportata dall’importante stock di asset già in portafoglio e dal flusso dei naturali reinvestimenti da questo derivanti, è elemento portante della politica monetaria. Quest’ultima, e qui arriviamo al vero nocciolo dell’intervento del presidente, influenza i rendimenti di lungo termine, sia comprimendo il premio per la durata sia stabilizzando le attese circa l’andamento dei tassi di riferimento futuri.

Proprio accumulando un portafoglio di attivi con duration estesa, la Bce, eliminando il duration-risk degli investitori privati, ne blocca la capacità di assunzione di rischio e stimola il ribilanciamento dei portafogli verso gli altri titoli, abbassando il premio di durata e i rendimenti su un ampio spettro di attivi finanziari. Con la progressiva normalizzazione dei mercati e il miglioramento del contesto economico, è diminuita però la percezione e aumentato l’appetito per il rischio: ecco spiegata, quindi, la ragione del diminuito ritmo di acquisti mensile della Bce. Quanto all’altro effetto, quello “di segnalazione” circa il futuro sentiero di politica dei tassi d’interesse, questo è rimesso all’allungamento del periodo di acquisti che, unitamente alla dichiarazione di una politica di mantenimento dei tassi bassi ben oltre il termine del periodo indicato, meccanicamente influenza la determinazione del momento in cui si assisterà al primo rialzo.