Italia-Europa, un confronto amaro

Il divario borsistico tra Italia e Stati Uniti è spietato, sia in termini di dimensioni che di performance, sia nel beve che nel medio-lungo termine. E riflessioni analoghe, purtroppo, si possono estendere anche ai principali Paesi europei, seppur con i necessari distinguo.

Un confronto decisamente amaro, soprattutto quando il campo di osservazione si estende ai dieci anni che hanno caratterizzato lo Tzunami che ha colpito l’Europa, Italia inclusa, dall’ultimo trimestre del 2008 a seguito del contagio scattato con la crisi dei mutui sub-prime americani della tarda primavera del 2017.

Dall’apice della crisi l’indice tedesco, Il Dax, ha recuperato ampliamente il crollo, arrivando a triplicare il proprio valore dai minimi post crisi toccati a inizio 2009. Lo stesso vale per quello inglese, il Ftse100, che ha superato i livelli pre-crisi e sta resistendo alla Brexit grazie anche al “conforto” americano.

Meno brillante, ma ecclatante, la performance del francese Cac40, che ancora non ha raggiunto i livelli pre 2008, ma che sta vedendo dalla nomina di Macron al vertice delle istituzioni politiche un netto recupero grazie prevalentemente alla coesione del sistema paese. Una miscela grazie la quale la Francia è riuscito a sfruttare i momenti di debolezza della confinante Germania ed occupare la scena recuperando molto terreno dai momenti bui impersonati dal precedente Governo Holland.

In quest’ottica, la performance del listino milanese evidenzia tutte le debolezze del sistema Paese. Debolezze su cui si innesta la violenza della speculazione quando sulla scena non resta altro che lo sconforto di scelte politiche incomprensibili per gli investitori proprio perché guidate solo dalla necessità-volontà di colpire la pancia degli italiani delusi e amareggiati da dieci anni di crisi.

E tutto ciò proprio perché il bel paese, a partire dalla sua classe dirigente, sia politica che economico-sociale, non riesce infatti a trovare la coesione fra le forze sociali necessaria per affrontare le sfide odierne, ma neppure ad individuare personaggi rappresentativi di “poteri definiti” in grado di fungere da collanti per attuare la ripartenza mettendo sul piatto un minimo di progettualità economico-politica.

Scenario oggettivo, come testimoniano i dati nudi e crudi. Osservando la dinamica del Pil dell’eurozona si nota infatti come quello tedesco abbia guadagnato dalla crisi oltre 10 punti, con una media dal 2010 a oggi di 1,8% annuo, mentre l’Italia si è mossa in direzione opposta, portando il divario Italia-Germania non molto distante da quel venti per cento dichiarato dagli osservatori più critici della gestione degli ultimi dieci anni.

Perfino la Spagna, che è stata la più penalizzata dalla crisi del 2008, ha registrato una crescita del Pil dal 2013 di oltre 2,5 punti percentuali annui.

Scenario che si è riflesso dolorosamente anche sull’andamento della Borsa, che però ha attuato una certa ripartenza nel 2018 ed ha segnato un inizio 2018 da incorniciare, con l’Italia che ha registrato la crescita maggiore tra le economie mondiali.

La rottura con il resto d’Europa è però, purtroppo, riesplosa a ridosso delle elezioni di inizio marzo, quando si sono palesate le difficoltà a costruire un Governo credibile e “sostenibile” dopo la grande vittoria delle forze “populiste” rappresentate dai 5 Stelle e dalla Lega. Da allora il divario fra le principali piazze europee e quelle di Milano rappresentate dall’indice FtseMib è tornato ad allargarsi tanto che nella seduta di mercoledì 22 agosto, ultima disponibile, la nostra Borsa è stata ancora una volta l’unica negativa (andamento che si sta ripetendo anche nella seduta odierna).

Dinamica a seguito della quale la performance a 30 giorni del Ftse MIB è stata negativa per 5 punti avvicinandosi al calo del 5,2% registrato da inizio anno proprio a causa della brusca inversione post elezioni. Un periodo nel corso del quale il listino milanese ha perso più del 10 per cento trascinato verso il basso dal peso rappresentato dal comparto bancario, il più penalizzato dai timori connessi con l’aumento del richiamato spread proprio per l’accentuarsi del rischio Paese.

Questo anche se è doveroso rilevare come le performance negative si siano estese da inizio anno a quasi tutto il vecchio continente, penalizzato dall’acuirsi delle tensioni tra gli Stati Uniti, che continuano a macinare nuovi record, e la Cina, apparentemente colpita dagli “assalti” dell’amministrazione Trump.

Il Dax di Francoforte registra da inizio anno una perdita del 4,1% e a un mese dell’1,4%, l’Ibex35 di Madrid perde il 4,5% ytd e l’1,4% a 30 giorni, il Ftse100 di Londra segna un -1,5% da inizio anno e un -1,4% a un mese. Unico positivo nell’anno in corso il Cac40 di Parigi con un +2% year to date e +0,4% negli ultimi 30 giorni.

E poi doveroso ribadire che a subire gli effetti dalla sfiducia degli investitori internazionali sono soprattutto le banche, che in un periodo di incertezza, iniziato con le elezioni politiche il 4 marzo 2018 e culminato con la tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova, hanno subito maggiormente la pressione speculativa e il rialzo dello spread che proprio nella seduta di ieri è arrivato a 273 punti base con un rendimento del Btp a 10 anni superiore al 3 per cento. Condizioni a seguito delle quali il Ftse Italia Banche arrivato a perdere, negli ultimi 3 mesi, il 18,1 per cento.

L’incertezza politica ed economica italiana risulta poi accentuata dalle scelte americane e più di recente dal duro confronto con i cinesi a suon di dazi sull’importazione di prodotti. Tensioni estese alle altre aree del globo, inclusa l’Europa, con l’Automotive, la Tecnologia ed altri segmenti dell’Industria colpiti o minacciati dall’introduzione in America dei dazi sull’import.

Scenario di fronte al quale l’Europa, e in particolare l’Italia, si dimostrano assolutamente impotenti o peggio ancora. E come abbiamo già scritto nell’editoriale “I record americani e i crolli italiani” è difficile capire quali siano i motivi che spingono l’Italia a creare una voragine apparentemente incolmabile con gli Stati Uniti d’America e un divario, non altrettanto evidente ma comunque forte, con le altre big d’Europa.

Questo proprio perché il nostro Paese ha tutte le carte in regola per tornare a giocare tra le grandi, ma per realizzare ciò necessita di una classe dirigente in grado di guidarla fuori dalle secche. Una classe dirigente che si presenti al paese con un programma credibile e sostenibile per rilanciare l’economia, liberando quelle forze propulsive che i singoli attori sulla scena hanno dimostrato di non avere perso.

Una classe dirigente, sia essa politica, imprenditoriale e in generale sociale, in grado di prendere le redini del paese, di rinnovarsi e di fare proprie quelle responsabilità necessarie per ridare energia a un modello che ogni giorno mette in scena il proprio fallimento. Ed il Bel Paese, con i suoi operosi cittadini, si merita ed esige tutto ciò.