Usa – La finzione dei corporate earnings

L’ingegneria finanziaria che contribuisce alla lievitazione dei mercati azionari, soprattutto a Wall Street, è alimentata non solo dalle politiche ultra espansive della Federal Reserve e dai riacquisti di azioni (buyback) da parte delle società quotate, ma anche dalle manovre contabili sulle trimestrali.

L’oggetto del contendere è la modalità di presentazione da parte delle aziende delle trimestrali, e in particolare gli utili d’esercizio. La SEC, la Security Exchange Commission, l’equivalente della nostra Consob, richiede che le società si attengano al principio del GAAP – Generally Accepted Accounting Principles – un elemento di standardizzazione che permette di uniformare i giudizi su tutte le società e di rendere, pertanto, le comparazioni più semplici e meno arbitrarie sia all’interno del settore sia in generale.

Tuttavia, è ormai prassi comune da parte di molte aziende di derogare, già da diversi anni, da queste regole e presentare un EPS cosiddetto “adjusted”, vale a dire che non includa quelle che possono essere poste straordinarie o occasionali che ovviamente impatterebbero negativamente sull’utile d’esercizio. Parliamo di svalutazioni di partecipazioni, ristrutturazioni aziendali ma anche di semplici risultanze di bilancio pesantemente negative che vengano fatte passare come contingenti di solo un periodo e quindi “scartate”.

La ratio dell’aggiustamento ha un senso quando saltuario, ma purtroppo viene reiterato di trimestre in trimestre anche inglobando costi che sono, al contrario, ricorrenti.

Ora la SEC sta cercando di stringere i cordoni e di riportare tutte le società alla stretta osservanza del rispetto del GAAP.

Tuttavia, non sembra esserci riuscita neanche in questo trimestre appena concluso.

Infatti, delle trenta società del Dow Jones che hanno già presentato i dati, ben quattordici hanno presentato “adjusted” o “non GAAP earning” e la somma degli utili così presentati eccede mediamente del 26% quello canonico.

Gli “adjusted earning” sono l’oppio di analisti e investitori, che riescono a inflazionare i prezzi delle azioni.

L’esempio più eclatante è quello di Merck, che miracolosamente passa da una perdita di due centesimi nel GAAP a un profitto “adjusted” di $1,11 per azione.

A seguire Wal-Mart che ha inflazionato gli utili del 72%, DowDuPont del 67%, Coca Cola del 52%, Pfizer del 43%, J&J e GE del 38% fino a United Health del 4 per cento.

In alcuni casi le società hanno presentato entrambi i risultati, mentre in altri risulta assai difficile anche estrapolare il GAAP partendo dall’adjusted.

Ovviamente tale prassi non solo è assai diffusa tra le large company, ma soprattutto tra le piccole società che hanno necessità di mostrare risultati sempre in continuo miglioramento.

Twitter è uno di questi esempi. Non è nel Dow Jones e perde soldi da quando è nata, ma dopo gli “adjustment” presenta sempre lauti profitti. Nell’ultimo quarter ha perso 21 milioni di dollari secondo i principi GAAP, con ricavi in calo. Tuttavia, ha dichiarato un ricavo di “non GAAP” di 78 milioni di dollari che ha portato la perdita da tre centesimi a un utile “adjusted” di 10 centesimi.

In definitiva, questi “earning adjusted” sono assai diffusi a Wall Street e, oltre a confondere le idee sul reale andamento delle aziende, consentono di battere le attese definite dagli analisti e riviste, spesso al ribasso, pochi giorni prima della pubblicazione dei dati.

La minaccia della SEC ad attenersi scrupolosamente alla pubblicazione delle direttive GAAP ha avuto scarso riscontro se ancora 14 società del Dow Jones, quasi la metà, ancora le utilizzano.

Sembra, infatti, un giochino troppo bello e facile per poterlo così facilmente abbandonare.