La settimana delle Banche Centrali – Le riunioni della Fed e della Bce

C’è parecchia attesa per i meeting delle due banche centrali più influenti al Mondo che si svolgeranno questa settimana, mercoledì e giovedì.

Il più importante è senza dubbio quello di mercoledì 13 giugno della Federal Reserve, che dovrebbe incrementare i tassi di interesse per la settima volta, e sempre di un quarto di punto, dal dicembre 2015 quando li alzò dopo dieci anni cambiando il corso della politica monetaria da ultra espansiva a neutrale/restrittiva.

Tuttavia, malgrado l’esito sia ormai scontato, i pareri sulla decisione sono oggetto di ampie discussioni tra le principali linee di pensiero, alcune delle quali teorizzano che la manovra di questa settimana non sia affatto necessaria. Questo non perché l’economia a stelle e strisce sia in rallentamento, ma in quanto sia l’inflazione sia la disoccupazione non destano preoccupazioni, mentre la crescita non arretra ma non evidenzia cenni di surriscaldamento.

A tale proposito, pur in presenza di un recente sensibile apprezzamento delle materie prime, il tasso di inflazione sembra inchiodato al 2,1% da un paio di mesi e non mostra segnali di ulteriore apprezzamento.

Ci sono anche alcuni segnali di pressioni inflazionistiche sui salari, ma l’incremento dei prezzi al consumo rimane poco al di sopra dell’obiettivo del 2 per cento della banca centrale.

Tale risultato è stato conseguito con la politica di Quantitative Easing, che ha portato gli attivi della banca centrale statunitense alla cifra record di 4,3 trilioni di dollari.

Più recentemente, con l’inizio della politica di normalizzazione – vale a dire la riduzione del portafoglio titoli – iniziata lo scorso ottobre, si temono delle ripercussioni non solo sulla crescita dei prezzi ma anche su quella economica. Entrambi gli eventi non si sono ancora manifestati.

Più incandescente sembra, invece, la situazione del mercato del lavoro ma solo in apparenza. L’ultimo dato del mese di maggio ha evidenziato un ulteriore calo del tasso di disoccupazione al 3,8%, minimo da una quarantina di anni. Tuttavia, la situazione di piena occupazione nasconde la bassa qualità dei nuovi posti di lavoro a favore di impieghi scarsamente remunerati, che non generano redditi in grado di ridurre i debiti al consumo, soprattutto legati a carte di credito e finanziamenti auto.

Anche la crescita economica mostra segnali di stabilizzazione, ormai da quasi un decennio più verso il due per cento medio (2,2%) che verso il tre. La fiammata evidenziata negli ultimi trimestri del 2017, con punte di crescita al tre per cento, sembra già svanita, anche in presenza del massiccio intervento fiscale deliberato a fine anno dall’amministrazione Trump.

I tempi della crescita del quattro per cento annuo prima della Grande Crisi Finanziaria sembrano un lontano ricordo e anche le promesse elettorali di Trump non sembrano in grado di raggiungere questo target, malgrado le diverse politiche d’incentivazione fiscali e monetarie ancora in atto.

Per quanto sopra, la Federal Reserve non avrebbe motivo di accelerare la stretta monetaria. In realtà, la banca centrale deve recuperare terreno riportando i tassi di riferimento – ora solo all’1,75% – a valori più elevati per ricostituire l’arsenale delle munizioni nel caso il ciclo economico, ormai il più esteso dalla fine della seconda guerra mondiale, rallenti.

In aggiunta, l’autorità monetaria deve vigilare sull’esuberanza del mercato azionario che ha raggiunto nuovi massimi tra la tecnologia (Nasdaq) e il comparto delle small cap (Russell 2000).

LA BCE

Diversa la posizione della Banca Centrale Europea, chiamata a rallentare o concludere il programma di acquisti di titoli del debito pubblico.

Tale decisione potrebbe essere annunciata già da questa settimana sottolineando tempi e modalità di esecuzione, oppure rimandata in considerazione della turbolenza delle ultime settimane sul mercato obbligazionario italiano.