Lo scatto di Wall Street sugli altri mercati mondiali

La chiusura dei mercati americani per la festività del Labour Day è l’occasione per fare una riflessione sulla distonia tra l’andamento degli indici statunitensi e il resto di quelli mondiali.

Mentre i primi hanno frantumato la scorsa settimana i precedenti massimi storici, ad eccezione del Dow Jones che è arrivato ad un passo dal record di gennaio, i secondi latitano senza bussola da ormai diversi mesi, afflitti da crisi geopolitiche locali e dalla guerra commerciale scatenata da Trump e di cui sembra beneficiare solo Wall Street.

Tuttavia, anche alcune materie prime e valute dei mercati emergenti stanno sperimentando una fase di correzione, in alcuni casi anche significativa e superiore al 20% rispetto ai massimi storici o di periodo.

Risulta di conseguenza molto evidente che alcuni mercati azionari abbiano sotto-performato rispetto a Wall Street, ma mai in misura così netta dai tempi della crisi finanziaria.

Questo fenomeno è in corso ormai da inizio anno ed è frutto di diverse analisi in merito alle quali cercheremo di fare una veloce sintesi.

VARIABILI INTERNE E MACROECONOMICHE

Tra le prime possiamo indicare l’entità dei buyback in continua crescita delle aziende americane quotate che influenza positivamente l’andamento di Wall Street in aggiunta alle situazioni geopolitiche locali, quali l’incertezza per le scelte politiche del nuovo governo italiano che incidono negativamente sul nostro mercato obbligazionario o la deriva autoritaria in Turchia che ha provocato il collasso della divisa locale.

Infine, sempre negli Stati Uniti, la brillante crescita degli utili aziendali continua a sostenere le quotazioni dei titoli.

Tra i fattori esterni vanno evidenziati gli andamenti macroeconomici dei vari Paesi, la loro posizione debitoria, in molti casi assai elevata e spesso anche in moneta forte, e l’impatto futuro della guerra commerciale scatenata da Trump e tuttora da valutare.

Ad agevolare la corsa dei mercati azionari statunitensi ha contribuito anche la crescita dell’economia americana, che nel secondo trimestre dell’anno ha raggiunto il quattro per cento, il livello più elevato nell’ultima decade. L’attivismo di Trump sia in politica interna che estera, per quanto assai criticato, ha diffuso fiducia in tutto il Paese consentendo sia la corsa di Wall Street che il rafforzamento del dollaro.

Europa e Asia stanno evidenziando, al contrario, chiari segnali di rallentamento della crescita economica. Il Vecchio Continente cresce, da inizio anno, ai ritmi più blandi dal 2015 e dimostra sempre meno coesione in termini di politica economica e sociale con la questione dell’immigrazione che sta diventando sempre più ingestibile. In questo quadro incerto si inserisce anche l’evoluzione ancora poco chiara della Brexit con la Gran Bretagna che registra una crescita modesta, inflazione al tre per cento e la svalutazione della sterlina.

Dalla forte correzione dei mercati azionari di inizio febbraio, che ha coinvolto anche i listini americani, gli investitori hanno iniziato a ricomporre i portafogli spostandosi verso gli asset in dollari, sia azionari che obbligazionari.

In quest’ultimo comparto i rendimenti sono calati nella parte lunga della curva dei tassi, malgrado le aspettative di rialzi da parte della Fed siano state confermate per i prossimi quindici mesi.

Le tensioni sui Paesi emergenti hanno danneggiato molto più i listini europei e asiatici rispetto a Wall Street e questo dimostra la sicurezza dell’economia americana che ha ignorato completamente sia il crollo del peso argentino che la successiva debolezza del real brasiliano, le prime due economie dell’America Latina e con intense relazioni commerciali con gli Stati Uniti.

In aggiunta, le conseguenze dell’inizio della guerra tariffaria imposta da Trump da inizio maggio non sono ancora del tutto chiare e percepibili. Tuttavia, il presidente americano sembra al momento il vero ed unico vincitore di questa battaglia, appena iniziata, nella quale detiene facilmente il manico del coltello.

Anche la rivalutazione del dollaro, piuttosto inaspettata, ha contribuito a rafforzare l’identità di un’economia americana assai meno vulnerabile rispetto ad altri Paesi verso gli shock esterni.

La mannaia è caduta infatti su alcuni mercati emergenti, quali la Cina, il cui mercato azionario perde oltre il 20% da inizio anno. Fortunatamente la discesa è stata progressiva e non così violenta come ad agosto 2015 e gennaio 2016, evitando la diffusione di panico in altri mercati.

Ciò non cancella che la sotto-performance dei mercati non Usa rispetto a Wall Street abbia raggiunto livelli tipici di un normale “bear market” e che la correzione potrebbe perlomeno persistere.

LE PREVISIONI PER FINE ANNO

La domanda più frequente tra diversi analisti riguarda la possibilità che la debolezza di molti mercati sia la conseguenza del rallentamento del ciclo economico, evento che i mercati azionari tendono ad anticipare con un periodo di 6-9 mesi.

Questa situazione si riflette già nella debolezza del settore bancario europeo, recentemente sotto forti pressioni di vendite e nella fuga di capitali da diversi mercati emergenti che si stanno avvitando in pericolose svalutazioni.

Recentemente la Fed ha confermato, invece, la solidità della crescita dell’economia a stelle e strisce lanciando i big della tecnologia, Amazon ed Apple in particolare, verso nuovi massimi storici. Anche la salita dello S&P500 si concentra su pochi nomi e in pochi settori, ma nemmeno l’incertezza di diverse economie mondiali potrà far deragliare l’ascesa di Wall Street, al pari di altri rialzi dei tassi di interesse domestici ormai già digeriti dai listini.